Lo studio notarile respirava di legno di mango e di tabacco. Gianmarco era seduto alla scrivania, le maniche arrotolate, la stilografica tra le dita.
Sofia, sua figlia, gli stava di fronte. Lo osservava. Lo vedeva avvolto da una danza lenta di particelle di polvere, rilucenti come piccole stelle.
L’aria seguiva la logica del divenire, lui quella dell’essere o del permanere. Erano due universi diversi che abitavano lo stesso spazio, senza riconoscersi
Sofia amava l’aria, quando non aveva l’odore pesante di quello studio.
Dalla vetrata del decimo piano, mentre suo padre parlava, lei fissava il cielo. Curiosa, scrutava l’impazienza di quei filamenti che si muovono nell’aria al ritmo del cuore e che sembrano organismi viventi. Per molti quello è solo il fenomeno entoptico del campo blu.
Per lei quella era l’energia dell’universo che rivela il sangue del mondo. La prova che ogni cosa, anche la più ferma, è in continuo movimento. Se te ne accorgi sei vivo.
Suo padre non sapeva nulla di quei pensieri. Per lui il cielo era: luce-buio, sole-luna, giorno-notte qualche stella e una distesa di documenti da firmare.
«Vedi, questa è una procura speciale» disse, senza guardare la figlia. «Devi imparare a leggerle bene, le procure. Devi capirne ogni dettaglio, se vuoi essere uno dei notai più bravi di Milano».
Sofia non gli rispose. Teneva le mani intrecciate sulle ginocchia, faceva girare la poltroncina, con gli occhi fissi nel suo cielo. Aveva mani curate e sottili, candide ed eleganti. Nella testa aveva un ritmo. Una coreografia che provava da settimane, nel silenzio della notte, sul terrazzo di casa, quando tutti dormivano o i suoi erano fuori.
«Papà…» cominciò piano. «Io non voglio diventare uno dei notai migliori di Milano».
Gianmarco sbuffò.
«Voglio stare là, vedi?» indicò un punto impreciso della città. «Laggiù, sotto un tetto di tegole, dove c’è un piccolo palco. Voglio aprire la mia scuola di danza».
Gianmarco smise di far girare la penna. La posò accanto ai fascicoli, come si posa un coltello.
«Una scuola di danza» ripeté. «E poi? Sopravvivere di applausi?».
«Di qualsiasi cosa mi tenga viva».
Dalla porta socchiusa, Nina li ascoltava.
Nina stimatissima professionista, socia fondatrice dello studio, moglie di Gianmarco, madre di Sofia. La perfetta macchina della burocrazia notarile, Nina che sapeva mettere ordine nei mondi altrui con una firma.
La stessa Nina che era stata ballerina e aveva lasciato l’Accademia di Ballo quando aveva incontrato Gianmarco: rampollo della stimata famiglia Simonetti.
Nina, che aveva studiato Giurisprudenza fuori corso, che aveva fatto pratica e superato il concorso con la determinazione di chi non può permettersi di tornare indietro.
Era figlia di un ex calciatore che l’aveva allenata al rigore (in tutti i sensi), e alle occasioni a porta vuota, ma anche al movimento come disciplina e al silenzio come forma di affetto.
Il padre le aveva insegnato che il corpo è memoria e che ogni passo ha un peso e aveva contribuito a far decollare lo studio notarile, come chi sostiene un sogno che sa di rinuncia.
Nina, nella sua veste di professionista richiestissima in città, Nina madre amorevole e presente. Nina che sognava “passi a due” che non faceva più.
La sua presenza era un filo teso nell’aria.
Gianmarco se ne accorse e disse a Sofia: «Tua madre sa cosa vuol dire lasciare andare i sogni infantili per costruirsi un futuro. Qui, almeno, lo avresti un futuro».
Nina aprì un poco la porta, poggiò spalla e testa allo stipite, incrociò gambe e braccia, sorrise alla figlia e restò in ascolto.
Sofia allungò una mano verso un fascicolo. Non lo toccò, ma picchiettò le dita sulla scrivania. «Non voglio per me il futuro che pensi tu. Voglio il mio. Ciao, mami» disse, in risposta al sorriso di Nina.
Lo studio era un mausoleo di vite sigillate in atti: morti, eredi, legàti, liste di oggetti. I testamenti potevano essere atti di pura comicità, a volte, ma questo non faceva per nulla ridere Sofia.
Gianmarco abbassò lo sguardo sulle carte, tra quelle righe, rivide la Nina giovane che, con gli occhi pieni di stelle, parlava di tournée e di spettacoli. Poi la Nina perfetta, sulla porta del suo studio, allineata come i fascicoli nell’archivio.
«È una follia. Non puoi buttare via tutto».
«Non sto buttando via niente papà. Sto scegliendo».
Marco sbuffò, quasi per compatirla.
«Ascoltala!» la voce di Nina fu perentoria come una lama che non vuole ferire ma aprire un varco nella corazza.
Gianmarco si voltò.
«Ma tu?» le chiese con voce roca. «Non sei felice?».
Lei gli sorrise, con una smorfia dura, un po’ di resa, un po’ di sorpresa.
«La felicità cos’è, per te?» gli chiese.
Il silenzio si allungò nello studio dove quel quid, di tutto impeccabile, sapeva di gabbia. Sofia si alzò, leggera e felice. «Ho già parlato con altre insegnanti. Cominceremo con i corsi per bambini».
Gianmarco non disse altro.
«Pensaci» aggiunse Sofia. «Non è una decisione presa contro di te, papà. È una decisione presa per me”.
Poi si alzò, si allungò sulla scrivania per dargli un bacio sulla guancia e, con due giravolte, raggiunse Nina che la fece piroettare fuori dallo studio del padre.
«Ciao, family!» la voce di Nina si dissolse nel corridoio.
Nina restò a osservare Gianmarco che, curvo sotto il peso dell’aria, fissava le pratiche. Un documento era fuori posto. Lui lo sistemò nella carpetta con calma, con un gesto misurato, come a rassicurare sé stesso e lei.
Nella luce che filtrava, Nina vide la danza di mille filamenti, istanti sospesi di un cortocircuito poetico che fece vacillare la perfezione. Nina pensò che l’ordine, senza respiro, fosse pura ostinazione di morte certa.
«Non mi manca la danza, sai? Mi manca credere a un cielo in movimento sopra di noi».
Gianmarco alzò la tesa le sorrise e con voce ferma ma dolce disse: «Non tutto deve essere perfetto per resistere».
